L'ATTORE E IL SUO CLOWN INTERIORE

Approfondimento del Workshop diretto da Luca Angeletti

Alla base della formazione di un attore ci sono, innanzitutto, una serie di esperienze di studio, volte all’acquisizione di tecniche più o meno convenzionali e allo sviluppo di una profonda conoscenza di sé e dei propri mezzi espressivi. Lo scopo di una formazione accademica è quello di strutturare la creatività, incanalandola in una forma di linguaggio che, anche se non sembra, è, e deve essere, molto tecnico e rigoroso. Questo richiede uno duro lavoro e uno sforzo personale molto intenso, per
cui, prova dopo prova, il risultato finale ha tutto il sapore di una vera e propria conquista personale.
Questo lavoro di delicata e continua sovraesposizione al giudizio altrui, di minuziosa autoaffermazione, rischia, a volte, di spostare l’attenzione dell’attore più sull’apparenza che sulla sostanza, anche solo semplicemente, per cercare più consenso possibile e rispondere ad un’esigenza, umana, di riconoscimento per il lavoro svolto. Nel tempo, il rischio è quello diventare dei grandi esecutori, ego riferiti, il cui unico pensiero sia l’esibizione, come mero risultato estetico.
Un risultato limitante, che, spesso, rischia di interrompere il flusso di empatia tra attore e pubblico.
Un po’ come succede nella vita: più si diventa grandi e più le soluzioni che abbiamo imparato a trovare nel tempo si sedimentano come convinzioni che, giuste o sbagliate che siano, si cristallizzano, e diventano un ostacolo alla crescita e quindi al naturale fluire del rapporto causa ed effetto tra le cose, unica, grande, vera, fonte di sapere. Col tempo, dall’età della spensieratezza, in cui tutto era possibile, ed eravamo liberi di dare sfogo alla nostra verità e la nostra originalità, ci ritroviamo a raccontare e raccontarci bugie, omologandoci a un sistema di linguaggio adulto,
affaticato e in continua lotta per la sopravvivenza. Lentamente, crescendo, perdiamo di vista la nostra essenza, cominciamo ad accontentarci di quello che siamo diventati, senza stupirci più, senza più fare tesoro delle esperienze che facciamo, diventando quasi impermeabili a qualcosa di nuovo.
Innalziamo barriere, sviluppiamo convinzioni, rivendicando le nostre verità, vendiamo un’immagine di noi che non coincide con quello che siamo, ma con quello che vorremmo essere, o addirittura che gli altri sono, ormai, abituati a vedere di noi. E ci convinciamo di essere così, e andiamo avanti a veder passare le cose, dinnanzi ai nostri occhi, senza più guadarle, persi tra sensazioni, gesti e conseguenze usa e getta. Andiamo avanti per schemi, per abitudini, in automatico, e la struttura che
abbiamo acquisito e pensiamo essere la nostra forza, diventa, in realtà, il nostro limite.
Chi ha scelto di fare questo mestiere, deve imparare a tornare a guardare con occhi diversi non solo il mondo, ma anche sé stesso. Essere consapevole dei meccanismi che governano l’uomo in generale e l’individuo nel particolare, e individuarne e rappresentarne il conflitto: le distanze tra essere o apparire, tra sentire o esprimere. L’attore deve essere libero dai suoi blocchi, per poter rappresentare questi limiti. Non limitato per subirli. Un attore deve essere un veicolo, un infiltrato nella storia, una spia, che renda manifesto quello che lo spettatore non sa cogliere di sé stesso. Un
delegato del pubblico, che lo aiuti, se non a risolvere, almeno ad alleggerire le sue paure e ad alimentare le sue speranze. Tutto questo è una grande responsabilità che l’attore deve assumersi e deve mettere davanti a sé. Spesso, invece, si tende solo ad esibirsi e a cercare il consenso del pubblico o, peggio ancora, a trattarlo come se non capisse nulla e lui, artista, dovesse spiegargli le cose. Questo è semplicemente assurdo, il pubblico va a teatro o guarda un film per esserne coinvolto, per sentirsi protagonista di un gioco senza conseguenze e fare esperienza di sé, attraverso una simulazione di un’ora e mezza, fatta da altri. Il pubblico deve credere, prendere parte
alla storia, parteggiare, prevedere, scommettere, sentirsi sollevato, aver paura che l’eroe non riesca a farcela, o almeno deve poterlo credere. L’ attore, deve scrivere la storia mentre accade e, con chi lo guarda, giocare a fargli credere che tutto stia accadendo veramente. Non impressionarlo, ma condividerne attraverso la storia e i suoi personaggi, le fragilità e o la forza, con chi lo guarda. Oltre ad occuparsi delle emozioni, dei conflitti e delle soluzioni che riguardano il suo personaggio nella
storia, l’attore deve creare un ponte fra sé e il pubblico e, prendendo forza da esso, manipolare questa energia, per poi restituirla codificata e rappresentata.
Per arrivare a questo livello di efficacia sul pubblico, l’attore deve acquisire una preparazione accademica impeccabile, che gli permetta di sviluppare una coscienza e una padronanza di sé tali, da consentirgli di destrutturare il suo sapere, fino, quasi, a nasconderlo, per arrivare ad utilizzarlo in modo imprevedibile, vivo e sincero, e, nonostante la ripetitività e il rigore richiesti da qualsiasi messa in scena, cercare e valorizzare quel margine di imperfezione, che rende tutto più umano e vicino a
chi guarda.


Secondo Declan Donnellan, nel suo saggio “L’attore e il bersaglio”:
“…il perfezionismo non è che pura vanità…” ed esclude chi guarda.
“...l’accettazione e condivisione della propria insufficienza è un sollievo per l’attore…” e ancora
“…scoprire è sempre più utile che inventare…”.


Viaggiando in questa direzione, portando sempre, come bagaglio fondamentale, i principi di causa ed effetto, azione e reazione, e quello di condivisione, è giusto e sano provare ad entrare in contatto con il proprio CLOWN interiore. Esercitandosi, con un naso rosso, non a fare qualcosa, bensì ad essere qualcosa, l’attore può toccare con mano una verità importante, che arriva, prorompente sulla
sua pelle, come una rivelazione: l’attore non deve sembrare vero, deve essere sincero. Trovare il proprio CLOWN ed esercitarsi su di esso è il modo più rapido ed efficace per avvicinarsi alla comprensione della propria verità.
Il CLOWN insegna a lasciar accadere il personaggio, lasciandolo libero di reagire, non di recitare.
Se, nella vita di tutti giorni, noi siamo quello che facciamo, al contrario, un attore deve fare quello che è in quel momento.
Del resto, se Peter Sellers in OLTRE IL GIARDINO diceva che “la vita è uno stato mentale”, anche la recitazione può esserlo. Il CLOWN rimuove ogni tipo di blocco, di ingombro e pensiero accessorio, e insegna a regalare agli altri, altro da sé, attraverso sé.


L’attore attraverso lo studio del CLOWN può esercitarsi a:
- Accettare e condividere la propria insufficienza e trasformarla nel proprio CAPOLAVORO.
- Togliere le maschere, invece di metterle.
- Non ostacolare la capacità di creare e vivere immagini dentro di sé.
- Togliere sovrastrutture e ascoltare cosa nasce dalla semplicità e dalla sincerità.
- Imparare a reagire operando una scelta.
- Ripetere senza ripetersi.
- Auto-valutarsi.
Con un semplice naso rosso, la più piccola maschera del mondo, vestito normale e senza trucco, il mio CLOWN mi aiuta a togliere tutte quelle maschere che utilizzo ogni giorno, quando recito la mia parte nel mondo, indossandone di ben più grandi. E suggerisce una domanda: lo faccio per paura di essere giudicato, o per paura di non essere visto? Il CLOWN non ha una risposta, lui si nasconde dietro a un naso rosso talmente piccolo, che lascia intravedere tutto il resto, e trasforma gli occhi in
una finestra del respiro, attraverso cui passa la verità delle cose come stanno.
Ecco, questa piccola maschera/non maschera, ha il potere di riportarci a come eravamo, a come siamo e come saremo sempre, ha la capacità di restituirci la nostra essenza, quel principio che ci consente di reimparare e di andare avanti con gli occhi più aperti, in un modo nuovo o forse semplicemente dimenticato, ognuno col suo modo , ognuno in compagnia del suo CLOWN.